Può forse l’opera di Sergio Padovani dirsi un contemporaneo, meglio atemporale, Satyricon della Pittura? La forte componente visiva truculenta, la presenza picaresca che intessono di ebbra malinconia felliniana le sue tele, ricche di depravate o disperate anime fuoriuscite da un repertorio neoboschiano, ci restituiscono la misura di una spessa miseria umana. Spessa come i pesanti strati di pittura accumulati sul supporto pittorico che, quasi in dinamiche da post-Post Human, quanto più è affastellato di livelli di maquillage cromatico, tanto più svela nei grumi di pigmento l’andirivieni dell’istinto, dell’inconscio.
Non una pittura surrealista, quella di Padovani – seppur surreali appaiano gli scenari da lui proposti – bensì una pittura che prude, che ribolle sotto lo strato ultimo e superficiale dei suoi saggi, che intimamente pulsa di crudo fervore corrugando l’epidermide del dipinto, vero e proprio Speculum Veritatis, come si legge nelle ondulazioni in rame del piccolo Autoritratto dell’artista. Il suo non discriminare l’intuizione, anzi, l’esigenza spontanea ed estemporanea del suo operare su tela (o tavola, o carta), che procede di pari passo con l’imprevedibile comportamento dei non facilmente domabili materiali adottati – il ribelle bitume, la svolazzante foglia oro – fa, del suo dipingere, una psicografia estremamente interessante.
Storpi, mutili e indemoniate, vescovi e muse, policefali e ignudi, teste mozze e bozzoli umani, pesci spada alati e, ancora, indefinite altre bestie brulicano – tra una danza macabra, un anticelebrativo ritratto equestre, una crocifissione e una nave dei folli – nelle sue opere ricche di un repertorio pseudocircense medievale (tale più che altro per l’impianto primitivo e aprospettico della composizione), ma anche contemporaneo/pop-surreale, che accoglie ogni violazione, ogni eccezione, nell’ambito della mortifera festa carnascialesca che è la pittura di Sergio Padovani. Eppure, non troppo turbati, quasi serafici, ci appaiono questi grotteschi equilibristi tra vita e morte, indigeni del pagano limbo acherontico che tutto ingloba, persino una santa, una martire crocifissa in trittico, omaggio a quella Santa Liberata dipinta da Bosch che, proprio come l’iconografia del Christus triumphans, non tradisce una lacerante sofferenza, sebbene protagonista di un contesto in cui ci si aspetterebbe di trovare solo dei dolentes.
Financo imperturbabili appaiono anche i personaggi di Tanti cieli feroci, immersi in un aere denso e corrusco, tra cascate d’acqua e cielo, nel bilico scivoloso della loro esistenza apparente, pur incarnate nel magma pittorico in cui, come in una sabbia mobile, resistono, fissando lo spettatore, neanche troppo in cerca di un aiuto, men che meno di compassione. Impassibile è pure la donna che, senza vergogna delle pudenda, ci guarda dall’angolo inferiore destro della tela, e la penetrazione di un diavolo nella sua bocca non la turba. Neppure la figura centrale sembra scomposta dal suo progressivo ramificarsi, non nuova Dafne ma passiva ospite di un’improbabile arborescenza.
Imbelli monatti, sacerdoti di un rito cui non sanno di partecipare, sciamani di pratiche a loro stessi ignote – è il caso, per esempio, della celebrazione del cervo espiatorio di Da animali a dei – i personaggi di Padovani cercano forse in noi un pretesto, una giustificazione del loro essere, un indizio – quasi ci si commuove di fronte allo sguardo vuoto de Il seminatore! A parificarli tutti, il destino, quella ghignante Morte che si trastulla a temporeggiare, che non li prenderà mai perché forse li possiede da sempre ma che si diletta, più che a reciderne il filo delle Parche con l’impietosa falce, a menarli copiosamente col suo bastone, proprio come quello brandito dalla scheletrica presenza del cupo (i toni sono quelli di una produzione precedente) Aurora Matrice.
Eliana Urbano Raimondi