L’invasione è sempre barbarica e questo automatismo é pressoché di tutti, me compreso. A pensarci, ad approfondire, nella storia ci sono state invasioni almeno in parte civilizzatrici: senza i conquistadores chissà per quanti altri secoli i sacerdoti aztechi avrebbero strappato ai prigionieri, finanche ai bambini, il cuore ancora pulsante per offrirlo al dio Huitzilopochtli in cima alle piramidi a gradoni… Ma l’equazione fra barbari e invasione resta inscalfibile, innanzitutto in ambito letterario e penso a una delle più belle poesie di Paul Verlaine, una delle più belle poesie tout court, “Languore”: “Sono l’Impero alla fine della decadenza / che guarda passare i grandi Barbari bianchi…”. Nasceva allora il gusto del tramonto che come un fiume carsico attraversò i secoli, le frontiere, le arti. In poesia si ripresentò spesso, il primo nome che mi viene in mente è l’anglo-italo-argentino Juan Rodolfo Wilcock. In musica un momento di riemersione fu rappresentato dai Velvet Underground, dunque Nico e Lou Reed, e poi dal Bowie berlinese, dai Joy Division con le statue del cimitero di Staglieno in copertina, infine da John Foxx autore dell’elegantemente disperata, non poco verlainiana, “Europe after the rain”. Negli anni Zero, sembra ieri ma è già una vita fa, sul tema invasione ci si permise di sorridere. Daria Bignardi intitolò “Le invasioni barbariche” un programma televisivo molto compiaciuto e Alessandro Baricco andò prima in edicola (le edicole erano ancora importanti) e poi in libreria con “I barbari”, un saggio che a leggerlo sembrava che non ci fosse problema, anzi, scemi noi a preoccuparci. Oggi su tali argomenti nessuno si azzarda a fare ironia, dell’invasione magari si nega l’esistenza ma nemmeno nei negatori la barbarie suscita più l’entusiasmo che suscitò in Baricco: “Ognuno di noi sta dove stanno tutti, dentro la corrente della mutazione, dove ciò che ci è noto lo chiamiamo civiltà, e quel che ancora non ha nome, barbarie. A differenza di altri penso che sia un luogo magnifico”.

La pittura è sempre civilizzatrice. Ho riflettuto un po’ prima di scrivere questa frase: sempre sempre? Anche l’art brut, anche la bad painting, anche la street art? Direi di sì, anche le forme all’apparenza più selvagge tanto selvagge non sono, la spontaneità non è di questo mondo, non c’è immagine che non discenda da un’altra immagine e che non aspiri al museo. L’opera d’arte, scrive Agnes Heller, “non è soltanto una cosa: è anche una persona, e ha un’anima”. Dunque possiede volontà propria e, magari all’insaputa (nell’art brut) o a dispetto (nella street) dell’artista, desidera eternarsi facendosi accogliere nell’istituzione più gerarchica che esista. Cosa c’è di più sorgivo dell’Africa? Viceversa, cosa c’è di più formale dell’astrazione del nigeriano Odita? Nemmeno nel Continente Nero, alle falde del Kilimangiaro, è reperibile un’arte che possa dirsi ingenua: Toyin Ojih Odutola conosce David Hockney meglio dei nostri professori di accademia… Se l’arte è l’universale nel particolare, la pittura è l’universale in due sole dimensioni: suprema sintesi, estremo distillato reso possibile dal rispetto di precisi confini spaziali (non esiste civiltà senza limes di un qualche tipo). “Il modello che emerge farebbe felice qualsiasi storico di tendenze conservatrici: la sopravvivenza della pittura è un esempio di continuità” scrive Julian Bell in “Che cos’è la pittura?”. Vorrei non ci fosse bisogno di ricordare come la continuità sia della civilizzazione un cardine: Roma non è stata costruita in un giorno.

Sergio Padovani è barbarico e civilizzatore al contempo. Da un certo punto di vista è civilizzatore proprio in quanto barbarico e se sembra un gioco di parole mi spiego subito. Mi riferisco agli studi: Padovani è autodidatta, non ha fatto l’accademia. Sono pochi, troppo pochi, gli artisti italiani di formazione indipendente, entrati nel territorio dell’arte col talento in luogo dei titoli e dunque, nella prospettiva degli accademici, come invasori. Ce ne vorrebbero di più. Ammesso che invasori siano davvero: quelli come Padovani hanno messo al centro dell’arte italiana contemporanea quella pittura figurativa di antica e peninsulare tradizione che molti professori avevano tradito aprendo le porte della cittadella accademica all’invasione post-duchampiana di installazioni. Chi è dunque il barbaro? Chi il civilizzatore? Anche sotto il profilo dei materiali, delle tecniche, Padovani è bifronte. Tempo addietro lo definii Maestro del Bitume essendo, a mia scienza, l’unico pittore vivente a puntare su tale prodotto minaccioso e indisciplinato. Immaginate un liquido nero che una volta applicato dilaga sulla tela come un’orda mongola in certi film russi: quanto di più barbarico. Salvo poi scoprire che il bitume veniva usato nella pittura medievale e in seguito, per realizzare sfondi scurissimi, notturni, da Caravaggio e dai caravaggeschi: quanto di più storico, civilizzato, museale. Di bitume, nella presente mostra, ne è stato versato un po’ meno, per dare più spazio ai colori chiari, ma c’è e continua a rappresentare una peculiarità dell’artefice modenese. Decisamente non comune è inoltre l’utilizzo, in alcune piccole tele, dell’oro. Non da intendersi come olio di colore giallo, economica imitazione, bensì come metallo autentico, applicato in sottili e preziosi fogli. Non c’è bisogno di rinfrescare gli studi per ricordarsi dell’oro delle icone, del gotico, di tanta arte sacra da Bisanzio a Venezia, da Siena a Mosca: siamo così dalle parti della civiltà più raffinata.

Quando ho proposto a Padovani il titolo di questa mostra, “L’invasione”, sapevo che le mie ossessioni avrebbero stimolato l’espressione artistica delle sue. Condividendo fra l’altro una certa darkitudine (all’inizio non ho citato i Joy Division per caso). Ma non sapevo che il risultato sarebbe stato così ambiguo e dunque stimolante: guardando in anteprima questa magnifica mostra non vedo dove finisce il Padovani bizantino e dove comincia il Padovani turco, dove l’invasore e dove l’invaso, dove l’attacco e dove la difesa, dove la resa e dove la muraglia. Vedo un’oscillazione figurativa che aiuta ad attivare il pensiero, come certe sedie norvegesi imponendo un’oscillazione posturale aiutano ad attivare i muscoli. E mi ritrovo da qualche parte fra Basso Impero, Alto Medioevo e Tarda Modernità, e ancora più avanti e ancora più indietro perché il tempo in Padovani è mobile, pieghevole, nella sua opera macchinari elettrici possono tranquillamente convivere con pterodattili estinti milioni di anni fa e a proposito di riapparizione di realtà scomparse ecco il “Ritratto equestre del grande invasore”: da quale profondità della storia riemerge un simile soggetto? Vedo danze macabre e zattere della Medusa, scorrerie in quattro secoli di pittura, e vedo le infiltrazioni di Bosch, Bruegel e Burgert, tutti nordici ossia un po’ barbarici, e vedo gli incroci zoologici, fra animali e fra animali e uomini, mostri e meticci che compongono un bestiario fantastico (non manca il dragone) e poi moltissima acqua come nel “Primo re”, il film in proto-latino sulle origini di Roma. In parecchi quadri i personaggi stanno con i piedi a mollo, o su imbarcazioni di aspetto precario, disperse fra paludi che aspettano (o hanno dimenticato) la bonifica. Non a caso, nel linguaggio figurato, alluvione è a volte sinonimo di invasione, di eccessiva, ingestibile quantità di persone o cose (un’alluvione di parole, un’alluvione di fotografie…). Al contrario l’arte di Padovani è qualitativa, densa, tanto da racchiudere in pochi metri di parete la lunga parabola di una civiltà, non del tutto conclusa visto che ancora riesce a produrre artisti capaci di ravvivarne i simboli. A colpi d’oro e di bitume, piegando l’invasione alla propria visione.