Sergio Padovani o del cuore segreto del mondo

Alessandro Riva

Difficile – esercizio insieme salvifico e perennemente a rischio di perdita del sé e del mondo – è il volere (o dovere, per necessità propria più che per decisione razionale), stare in equilibrio sul sottilissimo filo che separa la ragione e l’oblìo di se stessi e delle forme stesse in cui il mondo si manifesta a noi stessi; quel dover stare in equilibrio tra capacità mimetica col reale e lo scavo profondo, autentico, non regolato né stabilito a priori, nei flussi e negli anfratti reconditi della propria storia e del proprio inconscio; quel dover recuperare forme, simboli, tracce ormai nascoste di tradizioni ancestrali, che superino i fragili e patetici dibattiti di ciò che oggi è chiamato “contemporaneo”, in un mondo in cui le forme stesse della tradizione non sono diventate che la ridicola parodia di se stesse. Difficile, difficilissimo, fare pittura oggi, volendo superare diatribe, riflessioni estetiche e ragionamenti che appartengono al confuso balbettìo di un mondo che sembra avere solo pochi istanti di vita, quando la vita dell’uomo, del mondo, dell’universo stesso hanno una lunghezza non misurabile da occhio e pensiero umani. E altrettanto difficile sarà, a sua volta, non essere perennemente scambiati per ciò che non si è, per ciò che non appartiene al nucleo fondante della propria ispirazione e identità profonda. Ma tant’è: il mondo ci chiede a volte di stare al suo gioco, e a ciascuno di noi tocca, in un modo o nell’altro, di adeguarvisi, cercando di mantenere intonso il proprio nucleo identitario, culturale, spirituale più profondo ed autentico.

Quando la vita è molto misera, l’ebbrezza è una delle ultime risorse che le rimangono”, scriveva Ernest Jünger. Ed Elemire Zolla, che sulle forme di apparizione del “Dio dell’ebbrezza”, Dioniso, emblema del Titanico, dell’Eccesso e del Barbarico che si affaccia alle porte della pre-esistenza del mondo prima ancora della codificazione stessa di sé come Storia, il Dioniso che scalzò l’apollineo per rivelare un’arte che “nella sua ebbrezza diceva la verità” (Nietzsche), il dio dell’eccesso come contraddizione e gioia nata dal dolore, che emergono entrambe “sgorgando dal cuore stesso della natura”, quasi che, nelle sue manifestazioni terrene, tutto l’eccesso della natura “si palesasse in gioia, dolore e conoscenza, fino al grido lacerante” (ancora Nietzsche, nella Nascita della Tragedia); ebbene, Elemire Zolla sottolineò, già qualche decennio fa, come anche oggi, dove “tutto rimane incerto, confuso, disatteso”, ancora oggi, dunque, “si può avvertire che ogni comparsa dionisiaca è un evento glorioso e una voragine che squarcia l’esistenza”. “Gli antichi avrebbero detto: Dioniso s’è presentato, ha illuminato la terra, mosso i venti, sconvolto i cuori, infondendo un’energia inattesa o sfibrando in un languido abbandono o gettando in una scurrile ilarità. Ha comunque spezzato leggi e costumanze, ha immerso nella natura animale e vegetale, ha infranto l’identità personale”. È apparso, infine, in un mondo che ha dimenticato tutti i riti e sconvolto tutte le gerarchie, infondendo riso, terrore, gioia, sconvolgimento. Ebbrezza.

Sergio Padovani non copia né guarda all’antico, o al magico, o all’ancestrale: frammenti della loro presenza sono, potremmo dire, celati, forse anche a sua insaputa, nel profondo del suo nucleo originario d’artista. La sua pittura è abitata dal perturbante: non è stupore, paura, o riso, o fastidio: è qualcosa che li abita tutti. Sì, anche il riso: un riso strano, amaro, sorpreso, sbigottito, abita, tra le altre, la gamma delle emozioni legate alle sue visioni spesso notturne, altre volte stranamente solari, ma di un solare allucinato, stranito, contorto, bizzarro, drammatico, come se un’epifania improvvisa, uno squarcio di verità o di tragedia avessero illuminato, con la sua luce vivida e folle, il mondo abitato dai suoi strani, improbabili, dolenti personaggi. Il riso: “salto dal possibile all’impossibile e dall’impossibile al possibile” (così in Bataille). E la paura, il terrifico: meccanismi atavici, che attraverso l’introduzione del perturbante, di ciò che è rimosso dalla coscienza razionale ma che esiste nel nostro nucleo più oscuro e profondo, muovono il desiderio di conoscenza profonda dei meccanismi che agitano le forme del sé e del mondo, attraverso lo sconvolgimento dei parametri di ogni regola, di ogni misura. Padovani utilizza questi grimaldelli, questi escamotage emozionali e sintattici prima ancora che estetici e formali, per far riapparire forme ancestrali di una coscienza perduta, dimenticata nel tempo: per riattivare codici, sinapsi, relazioni segrete tra le cose, per far riemergere collegamenti atavici della nostra coscienza, dei quali la nostra memoria razionale ha perduto nel corso del tempo il senso, e forse la stessa capacità funzionale. Nei suoi quadri sembrano fare la loro comparsa elementi diversi e apparentemente slegati gli uni dagli altri: simbolismi oscuri, alchemici, occulti, sprazzi di antiche e sparse epopee, immagini e simboli legati a riti, leggende, tradizioni antiche e dimenticate nel corso del tempo. Ricordi vaghi, ancestrali, di qualcosa che la nostra coscienza razionale sembra aver perduto da tempo immemorabile: una sorta di riattivazione di quel motore magico del mondo che abitava l’era più arcaica della terra, quando la scienza e la ragione non avevano ancora spiegato le loro ali, egemonizzando il corso della Storia, e il senso magico insito nella natura, nell’uomo, nelle piante governava ancora la crosta terrestre. In Padovani, è come se la pittura aprisse uno squarcio su quel mondo oggi dimenticato, evocando immagini, segni, situazioni che oggi potrebbero apparire soltanto, a uno sguardo superficiale, come misteriosi vaneggiamenti visivi senza apparente capo né coda: danze macabre, viaggi temporali, attraversamenti picareschi di fiumi, di montagne, di laghi fatati in compagnia di uccelli mai visti, pesci volanti, venti di fuoco, autocombustioni di alberi e di uomini, strane pratiche iniziatiche, macchine di tortura, flagellazioni, delitti, enigmatiche guerre di conquista a cavallo di mostri antropomorfi, e ancora visioni mistiche, sogni, miraggi, allucinazioni, metamorfosi, sdoppiamenti, incroci alchemici, martirii, odissee: un rimescolamento folle e perfettamente coerente di tradizioni, misteri, pratiche antichissime e liturgie segrete e rimosse.

A scorrere le immagini e le situazioni nascoste nelle stranianti visioni di Padovani, viene in mente quel crogiuolo e almanacco di assurdità e bizzarrie che è il Libro dei dannati, monumentale catalogo di avvenimenti apparentemente inspiegabili e assurdi (tra gli altri: macchine volanti, pioggia di rane e di pesci, impronte di animali favolosi, cataclismi, capricci di comete, iscrizioni su meteoriti, lune blu, soli verdi, iceberg volanti, temporali di sangue, piogge di fango, etc.) messi insieme da un oscuro imbalsamatore di farfalle nativo di New York all’inizio del Novecento, tale Charles Fort, che osò sfidare la scienza, la verosimiglianza del reale, la ragione stessa catalogando e raccogliendo per tutta la vita articoli di giornali, notizie peregrine e bizzarre trovate su vecchi almanacchi, voci, coincidenze, fattoidi sparsi per il mondo (in tutto, oltre 40mila annotazioni, ripartite in milletrecento sezioni, scritte tutte a matita, in un linguaggio stenografico di sua invenzione), per sfidare la razionalità della scienza e della stessa verosimiglianza delle regole del mondo, per aprire squarci di realtà non convenzionali e non immediatamente riconoscibili: “Non respingere nulla del reale: una scienza futura scoprirà relazioni sconosciute tra i fatti che ci sembrano senza rapporto”, annoteranno Louis Pauwels e Jacques Bergier in quel curioso saggio che è Il mattino dei maghiIntroduzione al Realismo fantastico. “La scienza ha bisogno di essere scossa da uno spirito avido, benché non credulo, nuovo, selvaggio. Il mondo ha bisogno di un’enciclopedia di fatti esclusi, di realtà condannate”, “per impedire che il reale sia pensato in modo falsamente coerente”. Il Libro dei dannati apparve a New York nel 1919 e produsse una rivoluzione negli ambienti intellettuali. “Prima delle manifestazioni del dadaismo e del surrealismo”, annoteranno ancora Pauwels e Bergier, “Charles Fort introduceva nella scienza ciò che Tzara, Breton e i loro discepoli avrebbero introdotto nelle arti e nella letteratura: il rifiuto fiammeggiante di giocare a un gioco in cui tutti barano, la violenta affermazione che ‘c’è altro’. Un enorme sforzo, non forse per pensare il reale nella sua totalità, ma per impedire che il reale sia pensato in modo falsamente coerente”. “Io sono un tafano che irrita il cuoio della conoscenza per impedirle di dormire”, scriverà il folle imbalsamatore di farfalle newyorchese, apostolo delle eccezioni e prete mistificatore dell’improbabile, che nella sua vita tentò di fare un disegno della rosa dei venti esterna, di fabbricare la bussola per la navigazione sugli oceani dell’altro lato della crosta terrestre e di ricostruire il puzzle dei mondi nascosti dietro questo mondo, annotando tutte le incongruenze e le apparizioni nel suo “ramo d’oro per i matti”, il suo folle e geniale Libro dei Dannati.

Ed eccoli, allora, i dannati che, dal canto suo, un altro mistificatore dell’improbabile e dell’impossibile, Sergio Padovani, mette al centro dei suoi folli e bizzarrissimi quadri: sono uomini e donne brancolanti in oscuri fiumi di fango, di lava, di neri e opachi bitumi, di scorie della coscienza cupa del mondo; disperazioni; estasi, epifanie; passaggi segreti e chiavi nascoste per visioni non raccontabili, non comprensibili. Grappoli, gruppi di viandanti, di pellegrini, di poveri uomini dolenti, colti nel cuore più profondo e ancestrale della propria esistenza quotidiana, quasi fossero stati sorpresi dallo sguardo dell’artista mentre si trovavano impegnati in piccole occupazioni misteriose: cerimonie antichissime, viaggi senza mèta, deambulazioni labirintiche e oscure, conversazioni interiori; gesti arcaici, rituali, appartenenti a oscure liturgie di cui sembra essersi persa ogni traccia fin dalla notte dei tempi. Poveri homini, come li avrebbero chiamati nelle cronache medioevali: disperati, pezzenti, spettri, sembianti; e ancora sognatori, viandanti, pellegrini, mendici, schiavi, scheletri, cerberi. Vittime, più che della storia e dei suoi accidenti, del cuore segreto del mondo, della coscienza nascosta dell’universo. E ancora, ridicole e orrende creature deformi, mostri semi-demoniaci, strane apparizioni che sembrano provenire direttamente dalla folta iconografia popolare legata alle leggende e alle superstizioni popolari più arcaiche, quasi a volere, allo stesso tempo, rappresentare ed esorcizzare la sottilissima relazione dell’umano col divino, mescolando in un’unica immagine il piano della ragione e quello dell’assurdo, il buio della psiche con l’inflessibile logica della scienza. Eccoli, i dannati di Padovani: sono santi, asceti, martiri, pellegrini; ma anche uomini-bestie, esseri psichicamente prima ancora che fisicamente deformi, malati, sofferenti, creature semi-larvali, morti, revenants. Spiriti, forse, e demoni di qualche dimenticata teogonia.

Le visioni di Padovani non sono mai pre-ordinate. Non sono studiate, apparecchiate, create per stupire o sgomentare lo spettatore: semplicemente, esistono. Arrivano sulla tela con la forza di una necessità iniziatica, segreta: “La mia tecnica è molto empirica”, ha dichiarato l’artista in un’intervista. “Non uso bozzetti o disegni preparatori. Inizio a dipingere sulla tela finché un’intuizione, un gesto, un errore mi spingono a seguire una via pittorica che non avevo considerato: semplicemente la seguo, cercando di farla convivere con quello che mi sta coinvolgendo o ispirando”. Non è l’elogio del caso, o di un presunto spontaneismo: è l’apertura di un varco verso una conoscenza anti-razionale, e giocata su piano della rievocazione di ispirazioni che esistono sotto la traccia della coscienza razionale. Sono epifanie, illuminazioni, allucinazioni visive, miracoli: non mere rappresentazioni di miracoli, ma la loro stessa evocazione in forma di pittura, di pigmento, di forma pura che sembra uscire dalle viscere e dal cuore profondo del mondo. “I miracoli sono come le pietre: si offrono ovunque e offrono la loro bellezza, ma nessuno ne riconosce il valore”, ha scritto Alejandro Jodorowsky nella sua magnifica e immaginifica Danza della realtà. “Viviamo in una realtà dove abbondano i prodigi, ma li vedono soltanto coloro che hanno sviluppato le proprie percezioni”.

Le folle visioni di Padovani affondano le mani, le viscere, l’animo nel cuore più fitto del mistero. “Il mistero deve essere sperimentato, venerato; deve entrare a far parte della nostra vita”, annota Károly Kerenyi nei suoi Studi sul labirinto. “Il mistero autentico resiste alla spiegazione, perché non può, per sua natura, venir spiegato, sciolto razionalmente. Il mistero esige una spiegazione: ma questa avrà solo il compito di indicare, appunto, dove risiede il vero enigma”. E Bataille: “il mondo è dato all’uomo come un enigma da risolvere”.

Sergio Padovani, di questo enigma, non ci fornisce alcuna chiave. Non ci dà soluzioni, descrizioni, né spiegazioni. Ci fornisce solo una sua folle, allucinata, labirintica evocazione interiore, per aiutarci a continuare a giocare a rimpiattino con il mistero del reale e con le sue oscure, mille contraddizioni e sfaccettature.