Visio Victus

Marco Violi

Ogni banchetto è sempre scandito da una liturgia laica, che si esplicita prevalentemente nel susseguirsi delle diverse portate. Quelle dell’inedito banchetto, al quale ci ha invitati Sergio Padovani, sono tre: Imago, Aurea, Visio. Nella prima l’ingrediente principale sono i ritratti, nella seconda preziose texture in foglia d’oro, nell’ultima visioni del cibo grottesche e visionarie. Come cambiano gli ingredienti delle portate, così è per i piatti che le contengono; fuori di metafora, cioè, i supporti dei dipinti, vere e proprie tavole da osteria in disuso, realizzate in essenze diverse, irregolarmente ritagliate ed adattate: cinque, le più recenti, sono state impiegate per Imago, sei, le maggiormente scabre e rovinate, per Aurea, mentre Visio occupa cinque frammenti del vecchio tavolaccio della cucina. Come in un pranzo la frutta segue il dolce e non viceversa, così questi sedici dipinti di Padovani necessitano di essere letti in questa precisa sequenza, senza stravolgimenti o inversioni.

Scorrere le opere di Sergio Padovani – queste come molte altre – è come affrontare un viaggio immaginifico oltre la realtà ultima delle cose, in quella plaga ove tutto ha il pregio di essere distillato in alchemica essenza. Interessa al nostro artista, infatti, non l’immagine esteriore, la realtà visibile e spiccia delle cose appartenenti al suo esercizio analitico quotidiano, ma ciò che di queste era lo struggente arcano del loro esistere e disvelarsi, come entità poetiche collocate tra le più intime regioni della mente.

È in questa felice pretesa espressiva che Padovani costruisce le basi di una pittura fatta di rappresentazioni mentali, capaci di interiorizzare nell’intimo della propria stesura echi lontani, memorie ataviche, brandelli di umori, trepidazioni e paure di un vissuto ai più apparentemente anonimo, ma certamente schietto e profondo in virtù dell’humus personalissimo da cui ha tratto la sua necessaria ragione d’essere.

La ricerca artistica di Padovani, colma di raffinate qualità e di potenti suggestioni, insiste lontano dai riflettori e da qualsiasi illusoria ribalta a recuperare l’affabulante verità delle cose più semplici: una sorta di universo sigillato dove le immagini vivono di una vita propria, narrata attraverso una staticità metafisica dettata dal loro essere presenze tutt’altro che anonime, racconti pittorici che riverberano al loro interno il sapore di una consuetudine domestica, unitamente alla raffinata ed esclusiva eleganza di un esercizio creativo assoluto da qualsiasi imposizione stilistica. Un’arte, la sua, propensa più al sentire che al vedere, proiettata com’è verso un altrove oscuro e fortemente immaginifico.

Ciò è ancora più evidente in questo ciclo pittorico, nel quale egli si dimostra votato a rivelare, più che a raffigurare, il sottilissimo confine esistenziale che separa il visibile dall’invisibile.

Vi è poi in Sergio Padovani una certa attitudine a contrapporre all’ideale del bello la realtà del brutto, specialmente quando raffigura una realtà che non è eterna, anzi noi stessi vorremmo che passasse il più in fretta possibile, quasi fosse un’immagine davanti alla quale ci copriamo il volto per non vederla: immagini che hanno in sé la loro scadenza immediata, che rimanda alla consapevolezza tragica che tra un istante potrebbero essere ancora più disperate. Figure messe in vetrina che accettano la continuità col nostro quotidiano, che altro non è se non una spersonalizzazione dell’umano che acquista i caratteri dell’indifferenza e dell’equivalenza della merce. Una sorta di pessimismo cosmico, dunque, in cui si dice che la vita è sogno e la morte è sonno senza sogni e da cui egli tenta di esorcizzarsi ed esorcizzarci.

Da ultimo una considerazione più generale. Mi pare che, a conti fatti, il tema principale della poetica di Padovani sia la figura umana: in essa reitera concetti umanistici, etici, formali e morali, di tradizione e civiltà i quali, sempre più spesso, le vicende d’oggi subordinano ad altri dei o, peggio ancora, cancellano. Risulta profondamente confortante che questo autore guardi all’uomo nella sua interezza di umanità, di dramma, di realtà sofferta e osservata, di pretesa di riscatto e di rinnovata consapevolezza di un’identità personale, che trascende la necessità di una spersonalizzante e imposta globalizzazione. La disperata ricerca di una soluzione alla solitudine, attraverso una sovradimensionata comunicazione e una esasperata tensione al voler sperimentare a tutti costi l’infinita varietà di ciò che ci circonda, è illusione tipica dei nostri giorni.

Nietzsche aveva teorizzato la trasformazione del mondo in favola e della verità in narrazione senza fondamento, Heidegger aveva confermato l’ineluttabilità di questo inglorioso destino. Sergio Padovani pare conoscere bene questa lezione e sa anche che sono ben altre le necessità profonde dell’uomo. Ci si trova sempre a fare i conti con se stessi e con gli stessi quotidiani e imprescindibili argomenti che hanno una lapidaria fissità, quella che l’uomo e questo artista sanno cogliere: amore, dolore, desiderio di felicità.