Potremmo dire che è una pittura noir, e questo nonostante una recente apertura al colore. Una pittura visionaria, quando le visioni sono però diaboliche, frutto del peccato e del disfacimento di una civiltà. Una pittura dark, di una realtà onirica cruda. Una pittura che non lascia indifferenti gli sguardi. Oppure, seguendo il titolo “Heimat”, giustificato da un ponderoso saggio di Emanuele Beluffi, potremmo filosofeggiare, immaginando che nell’epoca del “dispatrio”, così come voleva Heidegger, il tentativo di Sergio Padovani sia quello di un ritorno a casa, il ritorno in una porzione di territorio familiare, in una piccola patria. D’altronde – lo suggerisce il curatore – da un lato si disgrega ogni senso di appartenenza, ogni possibile identità in un Occidente al suo tramonto, per dirla con Oswald Spengler, dall’altro proprio l’arte è uno spazio, una radura, dove rimettere solide radici.

Una prova di maturità del quarantenne modenese, ex musicista, le cui opere sono in mostra a Bassano del Grappa (da questa sera fino al 15 novembre, alla Piccola Galleria Arte Contemporanea, via Matteotti 11), nel solco della grande pittura fiamminga del Quattrocento – Hugo van der Goes, Petrus Christus, Hieronymus Bosch e la Brueghel family al completo – in un confronto serrato con gli antichi senza dimenticare le istanze del contemporaneo, vuoi per la scelta compositiva delle tele, vuoi per i rimandi iconologici, vuoi per la volontà di sedimentare attraverso la forma il contenuto, spesso un contenuto profondo. Perché nell’arte tutto è effimero e profondo, spiega Beluffi, ma al contempo chiosava Friedrich Nietzsche: “Com’erano profondi i Greci nella loro superficialità!”.

Angelo Crespi
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