LA DISCESA AGLI INFERI

La pittura di Sergio Padovani è il diario della sua-nostra discesa agli inferi nelle spire di un labirinto, dove si consuma, senza possibilità di appello o revisione, la condanna pronunciata nella notte dei tempi dal demiurgo cattivo nei confronti dell’uomo. E dove l’unica possibilità di riscatto è data dalla conquista  dolorosa della conoscenza di sé e del proprio destino, segnato dall’appartenenza alla genia di quelli che, per verdetto divino, furono cacciati dal paradiso terrestre.

La coscienza dell’irredimibile condizione umana esclude il ricorso a illusori tracciati di salvezza. La nera luce definisce le sagome dei suoi personaggi, grotteschi e improbabili, attivi sul palcoscenico del  gran teatro dell’assurdo, nel quale, in simbiosi esistenziale, si muovono ombre di esseri umani e d’altri esseri di ibrida fauna, accomunati dalla stessa condanna.

Pittore della notte e dell’insonnia, indagatore delle zone oscure dell’anima inquieta, perduta l’innocenza, sacrificata sull’altare della “definitiva dissoluzione del valore e dei significati del classico, dell’idea stessa di ordine”, l’artista si nutre di incubi generanti visioni ossessive, impietose, esaltate da  una ingegnosa  macchina scenica, fatta di ruote dentate, altalene, carrucole, pesi e contrappesi, retti da una trama di corde in una officina-mattatoio “en plein air”, nella pallida luce del giorno che muore sopra terre bruciate, sopra corpi deformi offerti al demiurgo, in un’aura da “dies irae”.

E’ questo mondo tenebroso e infranto l’esito del sonno della ragione, sembra dire l’artista, cui non è estranea la coscienza critica e l’esperienza tragica dell’avventura artistica e umana del Goya delle pitture nere e della rappresentazione grafica dei disastri della guerra. Ma, anche altri giganti della pittura, più vicini e più lontani, possono essere richiamati per cogliere il retroterra culturale che sta a monte della narrazione di Sergio Padovani. Il quale ha certamente assorbito la lezione del lontano Hieronymus Bosch, restituita con il carico di consapevolezza conseguente all’esplorazione freudiana dell’inconscio, alla suggestione della macchia, bituminosa, che non è soltanto espediente materico formale, ma linguaggio simbolico da decifrare, che ci cattura e ci inquieta perché apre uno spiraglio sull’irrappresentabile. O la lezione dei simbolisti Odilon Redon, Heinrich Fussli, Félicien Rops. O, per stare nell’ambito dei contemporanei , la lezione di Bacon , cantore della caduta dell’uomo nel tempo e della sua consunzione nel gorgo della vita, o la lezione del norvegese Odd Nerdrum che, contro ogni irragionevole e folle teoria della morte dell’arte, ha ripreso modi narrativi rembrandtiani per rappresentare angosce, paure, incubi dell’uomo d’oggi. E’ questo il bagaglio di conoscenza e di esperienza tragica che nel vissuto artistico di Padovani si fa canone estetico e narrazione di migranti sperduti e piegati  da un vortice inarrestabile nel labirinto della condizione umana, privo di uscita e di soluzione.

S’avverte nella liquida realtà che l’artista dispiega sotto i nostri occhi un’aura di tregenda pervasa da malefizi, mutuata e appresa, immagino, con il latte materno, dal libro di pietra scritto in quel primo secolo del secondo millennio dal grande Wiligelmo, “conteur” ineguagliabile del racconto biblico sulla facciata del Duomo di Modena, sua patria, “conteur” del primo delitto della storia(biblica) dell’uomo, dico di Caino e Abele, comprimari di un incipit efferato della vita, che dà conto della soccombenza del buono  a vantaggio della sopravvivenza dell’assassino, nostro progenitore, delitto milioni di volte ripetuto nei secoli con infinite varianti di ingegnosa e terrificante creatività fino al “capolavoro”, insuperato perché insuperabile, di Auschwitz.

S’avverte anche un andamento musicale barocco, retaggio della prima formazione culturale dell’artista, nell’ondeggiare delle sagome nel cielo plumbeo, reso come mezzo di contrasto della macchia bituminosa terrestre, un andamento musicale che accompagna il deliquio, lo sfinimento delle figure nel passaggio dalla forma originaria ad altra di specie indefinita.

Tutto nella rappresentazione risponde alla visione nera del  pittore “maledetto”, che nulla concede agli inganni consolatori, cui tende l’uomo che non accetta la propria finitudine.

Sotto il peso di questa lettura del reale si potrebbe soccombere. Ma, a salvare l’artista e i destinatari della sua elaborazione interviene il piacere estetico ingenerato dalla forma e il piacere della conoscenza che induce alla pietà.

E’ il momento per lui e per noi della catarsi, della liberazione dallo stato di inconsapevolezza, dalla cecità dell’infanzia della mente oltre i confini naturali dell’infanzia vera e propria. E’ quello che avvertiamo davanti ai “Prigioni” di Michelangelo o davanti a un trittico di Bacon o alla lettura degli aforismi di Cioran.  E’ l’ebbrezza che proviamo quando incontriamo, con la mediazione dell’arte, la verità, non quella rivelata da pretese deità, ma quella cercata e intuita, con i margini di errore propri della speculazione filosofica degli esseri umani. E’ l’ebbrezza che dà il sortilegio della forma quando fa tutt’uno con una verità profonda rivelatrice del nostro “ubi consistam”, del nostro essere nel mondo.

Giovanni Stella